Insopprimibili vizi

insopportabili_viziInsopprimibili vizi
Racconti brevi o Romanzo puzzle
AM Edizioni Marotta, 2004
ISBN 88-7631-010-X
€ 12,00

Edizione esaurita. Il libro non è più in commercio.

 Insopprimibili vizi – scrive tra l’altro in una recensione al libro Alessio Brandolini – è il convincente esordio in narrativa di Laura Ricci: ci troviamo di fronte a un romanzo che si svolge attraverso venticinque brevi e intensi racconti che a fine lettura si ricompongono, si incastrano l’un l’altro per formare un unico, esteso mosaico, per tessere una storia analizzata da diversi punti di vista, eppure compatta per via del forte legame con i personaggi femminili qui presenti, o il personaggio femminile visto in differenti situazioni e momenti della sua esistenza.
Vita quotidiana, vita sentimentale, vita intima e vita poetica. Non a caso Laura Ricci è già conosciuta come poeta e qui il lirismo in prosa ha momenti molto efficaci: “Ecco questa lingua di ghiaia e sabbia protesa in tutti i possibili blu del mare greco, nei suoi verdi liquidi cristalli” (dal racconto “Schegge di luce”). Solo un breve passo per fermarsi su due delle caratteristiche di questa scrittura: la musicalità e la costante presenza dei colori.
Altra peculiarità sta nel riuscire a dire in poche frasi molte cose, evitando i luoghi comuni, così come le pose d’originalità ad ogni costo. In generale quello che colpisce nel libro è l’abilità nell’accostare diversi fili (che poi si traducono in diversi registri di narrazione) che si tendono e danno forma ai vari paesaggi dell’anima, alle persone (marito, amanti, figlia, madre, amici e amiche), alla natura, alla casa, agli aspetti quotidiani, a tutti quei gesti (per esempio fare e bere il tè) che qui si trasformano in parole, in narrazione piana e precisa che rivela tutto d’una persona e, insieme, il senso della vita…
Giusto il titolo della raccolta (o dovremmo dire romanzo?): insopprimibili vizi, appunto, al plurale. E quindi non solo il vizio della scrittura che in queste storie è così importante: la scrittura coltivata con fierezza e costanza, la scrittura che poi si trasforma in testi poetici e in racconti. Ci sono altri vizi? il vizio sembrerebbe unico (chiaro che qui si parla di vizio in senso ironico) ed è quello di voler afferrare la vita meglio che si può, in modo intenso, partecipe, senza paure e blocchi, senza scivolare nella solitudine, nel distacco, per poi mirare a una maggiore pienezza, a una felicità più profonda e radicata, all’espansione del sé…
Allora ecco che la scrittura si fa vizio insopprimibile, faro che illumina le cose, lente d’ingrandimento per osservare con maggiore attenzione i dettagli, i particolari. Scrittura che si trasforma in ago e filo per ricucire gli strappi, gli addii, i vuoti generati dal dolore. Ma il discorso vale anche per la musica (suonata e ascoltata), o la lettura attenta, o la partecipazione intensissima – eppure calma e sicura – alla vita.

Riportiamo di seguito un racconto del libro, “Cocco e tè”.

Cocco e tè

Ho annegato la tristezza in una tazza di tè – il mio tè – ma basta un po’ di tè per annegare la tristezza?
Tutto è cominciato per un tè, fare un buon tè non è facile.
Devi portare l’acqua, meglio se non troppo dura, all’ebollizione, ma essere così abile da spegnerla un attimo prima. E poi attenzione, proibiti i filtri, e mai far galleggiare nel bollitore le foglioline. È l’acqua che deve andare alle foglie, non le foglie all’acqua.
La teiera devi prenderla rigorosamente di porcellana, meglio se chiara – appena ombrata o pastello o candida – porre le foglie nel fondo e versarvi sopra l’acqua. E, di porcellana leggera, devono essere anche le tazze: Royal Albert, possibilmente, o Bavaria, al massimo. Alla ceramica non pensarci proprio; il tuo tè, anche fosse il migliore del pianeta, e la ceramica la più graziosa, acquisterebbe un sapore orrendo: è un fatto chimico, non si scampa.
Le mie, di tazze, erano Royal Albert: candide fragili tazze dal rigo d’oro sottile, ornate ma non troppo di piccole rose canine, le stesse del piattino; i pezzi non infranti del mio matrimonio sbriciolato da tempo – triturato da non far quasi più male – il primo regalo di nozze. Sapevo già come si fa un buon tè, e le avevo amate, quanto amate quelle tazze. Non per il lusso, per la porcellana buona; e per il disegno delicato.
Ho esitato, quel giorno, prima di metterle sul vecchio tavolo. Per un tipo come lui, così immediato e informale, forse troppo preziose; per un tipo come me, così infrattivo sotto l’ apparenza quieta, forse un po’ mendaci; per un tè all’aperto, in un giardino di campagna non molto curato, forse inappropriate. Perché poi, come non usare cucchiaini d’argento con tazze di tal sorta?
Ma ha prevalso la scientificità, quel fatto chimico della porcellana: gli avevo promesso il miglior tè del circondario, il tè dei tè, quello che nessun Caffè, nessuna Sala, sia pure eccellente, saprebbe servire; e poi, per il tè, non avevo che quelle tazze.
Dovevo offrirgli un carnalissimo tè – così l’avevo chiamato – pretesto per conoscerci meglio, variazione del cappuccino del primo incontro. Non sono donna da coca cola o da aranciata. Dovevo offrirgli un carnalissimo tè – carnale nel senso di reale, quotidiano – per smussare il pathos di certe parole scritte, pericolosamente intense che ci scambiavamo; per parlare in prosa; per issare, chissà perché, l’argine, forse meno intrigante, della presenza. Ero sola – il mio matrimonio inutile alle vacanze separate – ma di certo non volevo sedurlo. Una donna non più giovanissima che tenta un giovane uomo… no, esattamente il contrario: un carnalissimo tè per affermare nient’altro che una profonda amicizia.
Non è andata esattamente così, non come avevo pensato. E l’amicizia profonda forse non c’è, quando è profonda è amore. O l’amore è l’unica forma di vera abissale amicizia. Vacci a capire, chissà.
Il tè, quel giorno, lui non l’ha finito, anzi, ne ha bevuto pochissimo. E io, che bene non lo conoscevo ancora, ho pensato che non gli fosse piaciuto per via del latte. Perché si sa, da noi quasi tutti prendono il tè con il limone, ma con il limone tutti i tè sono uguali, l’acido citrico li uccide. Se vuoi conoscere il gusto vero del tè, sperimentare le varie miscele, devi metterci solo un goccino di latte; o anche niente, se è molto aromatico.
Il tè cattivo, quello del bar, lui lo finisce. Ma quello buono, quello da me – da me che, con le mie tazze da tè, senza più i cocci del matrimonio, da quella casa del tè carnalissimo me ne sono andata – lui non lo finisce mai. E non è una questione di latte, è una questione d’amore. Perché mi parla, mi parla, mi parla, tanto e anche più di quel pomeriggio di luglio tra i merli in canto, le vespe gialle e la seconda fioritura del gelsomino. Mi parla finché non lo bacio. E se lo bacio mi bacia, mi bacia, mi bacia. E il tè, quello buono, quello perfetto, quello nella tazza Royal Albert – e chissà se lui l’ha mai vista la bellezza preziosa di quella tazza – resta lì e si fredda.
Perché quel giorno, quando se ne è andato senza finire il suo tè, per salutare mi ha preso le mani. E nelle mani ha sentito il mio cuore che ricominciava a battere.
Anche quel giorno il mio amore è arrivato in ritardo; li ha annunciati, i suoi contrattempi, con varie telefonate. Per un poco si è perso nel mio tè – l’ora non c’era più – pochi sorsi; nei miei occhi si è perso – o chissà, si è ritrovato – nelle mie orecchie, nell’odore del gelsomino, nel ronzio delle vespe, nel sorriso o nelle parole della mia bocca. E poi, anche quel giorno, come una raffica, stringendomi le mani, dopo tanta dolcezza improvvisamente è fuggito.
Un uomo giovane ha sempre molto da fare, migliaia, milioni, miliardi di cose da fare, dovevo prevederlo. Ma da quel giorno, ogni previsione mi è sfuggita.
I ritardi, gli impegni, i contrattempi, i rinvii: in queste cose, suo malgrado il mio amore è specialista. Il tempo passa, e lui ti manca fino al morso allo stomaco, fino al groppo alla gola, fino a farti venire il mal di testa.
Ho annegato la mancanza in una tazza di tè, la mia solita tazza Royal Albert, ma basta?
Non basta; ma per quel tè carnalissimo, per quelle mani, per quel cuore che ha ricominciato a battere – e forte, così forte come non ha battuto mai – sono disposta a soffrire questo ed altro.
Dei pasticcini di quel giorno, invece, non mi ricordo. Forse non c’erano, forse erano dei biscotti inglesi alla menta. Comunque, i miei preferiti sono al cocco.