Dodecapoli – I luoghi del libro e dell’installazione

Incipit
Verona, Piazza delle Erbe 

Se fossi ricca – si trovò a pensare – comprerei a ogni cambio un paio di lenzuola nuove e butterei quelle sporche e usate.
Il grande letto matrimoniale si offriva, al solito disfatto e spiegazzato, alle sue mani, per essere tirato e rimesso in sesto. Osservando le ombre giallognole sul rosa non più limpido del cotone delle lenzuola, la signora Fanin aveva realizzato che sarebbe stato opportuno cambiarle.
Ma no – si disse dopo un attimo – che idea idiota… – Dovrei comunque lavare le lenzuola appena acquistate… impossibile usarle con quell’odore di colla, quella rigidità della stoffa nuova… e così, a ogni acquisto, bisognerebbe lavarle e stirarle, sarebbe esattamente la stessa cosa…
Era la faccenda più ostica, per lei, lavare e stirare le lenzuola, quella che non le dava alcuna soddisfazione perché, quando tutto era finito, le lenzuola neanche sembravano più del tutto pulite. Non era tanto lavarle, per quello c’era la lavatrice, quanto doverle asciugare.
Le era toccato in sorte, sebbene non fosse ricca, di abitare uno dei luoghi più rinomati e trafficati d’Italia, quella Piazza delle Erbe, solo in apparenza popolare, verso cui stendere un paio di lenzuola sarebbe stato, oltre che non permesso, assolutamente e obiettivamente delittuoso. E le sue finestre, sebbene non fosse ricca, davano tutte sulla Piazza delle Erbe, ma senza neanche un terrazzino. […] 

 

Tropical tea
Roma, Piazza di Spagna

[…] Quando era scesa non pioveva più, ma l’aria era solida, densa. Aveva girovagato, un po’ in anticipo, intorno al luogo dell’appuntamento. Senza meta, senza fretta. E intanto, mentre tornava al punto designato, della sua amica nessuna traccia, era in notevole ritardo.
Gioiva, mentre aspettava, di un’immagine zuppa, insolita di Piazza di Spagna. La godeva – grigia e colante, deserta – pensando che era esattamente lì, in quell’aria fredda bagnata, in quell’ora sospesa grigiastra che avrebbe desiderato incontrare tutti quelli che amava, tutte quelle che in qualche modo sapevano destarla. In quell’ora grigiastra, in quell’aria bagnata, in quella piazza. Miracolosamente vuota, deserta. Lì, sulla scalinata lucida e scivolosa di Trinità dei Monti, al suo inizio, sotto l’ombrello inutilmente aperto della fioraia assente, smemorata.
E mentre volava leggera, col cuore e con gli occhi, dalla fontana della Barcaccia alla guglia del sallustiano Obelisco, dal primo gradino della monumentale scalinata alla balaustra della chiesa, dal Babuino alla colonna dell’Immacolata, dall’Ambasciata di Spagna all’Accademia di Francia, ecco che di nuovo aveva incontrato Ottavia. Esattamente a quell’ora, in quell’aria, in quella piazza. […]

 

Il giorno delle streghe
Torino, Piazza Carlo Emanuele II

Tutto cominciò il ventidue gennaio, quando Caterina Blume, a letto da tre giorni per la sua prima colica di reni, ricevette, gradita e improvvisa, una visita della sua amica Anna.
Era ancora spossata, debolissima; un peso in testa meno atroce, ma persistente, continuava a tormentarla; e se erano finalmente cessati i conati di vomito, non si decideva a retrocedere la febbre, sia pure debole, dell’infezione. Trentasette e sei, trentasette e nove, trentotto: impietosa la febbre la inchiodava, con ogni legittimità, al letto caldo e soffice.
Caterina non conosceva il letto che per due usi: dormire, pesante e profondo, quando, dopo una giornata più che lunga e attiva, bruscamente il sonno ve l’affondava; e, di notte o di giorno, il più possibile e a lungo, fare l’amore. Anche se, per l’amore, avrebbe preferito un prato o un pagliaio delle sue Langhe. Ma viveva a Torino ormai, aveva trentaquattro anni, e gli amplessi al fieno o al trifoglio odoravano nelle zolle più aspre della memoria più acerba.
Oziare tra le coperte, leggere sui cuscini, consumare la colazione nelle lenzuola, o sdraiarsi a sognare e a riflettere sul piumino fiorito di malva e campanule, questi e altri usi concessi al letto dallo scorrere dei secoli e dall’umana incessante inventiva Caterina, per sé, non li ammetteva proprio.
Lei viveva bene in verticale infatti, persino il piccolo caffè nero che le piaceva consumare appena sveglia preferiva sorbirlo davanti ai vetri del suo studio, con le ante aperte appena l’aria si faceva tollerabile. Quelle finestre su Piazza Carlina, quel supremo, concluso, incalcolabile bene… In camicia da notte, spettinata e libera, lasciava che lo sguardo scendesse pigro sul lato opposto del seicentesco Solaro del Borgo: la composta rassicurante concatenazione delle serliane del piano terreno, l’imponente alterna serie delle finestre a timpani – uno ogivale uno acuto – del piano nobile, la serena tranquilla simmetria delle aperture non meno eleganti del sovrastante attico. Quando arrivava a fissare il monumento armato del Duca – quel Caval ‘d Brons in cui il “Testa di Ferro”, dopo l’eroica battaglia di San Quintino, da mercenario diventa signore e ripone la spada – la sua breve magica pozione si era abbastanza èstiepidita. […] 

 

Il circo
Trani, Piazza della Cattedrale

[…] Era stato amore a prima vista, e del resto non avrebbe potuto essere altrimenti. Lei aveva inciampato, un pomeriggio di maggio sulla ghiaia di Boboli, a Firenze, dove era andata a studiare lingue dal suo paesino vicino Bari: tanto per vedere il mondo, cambiare aria, che a diciannove anni non fa mai male.
– Si è fatta male signorina, posso aiutarla?
– No, credo di no, grazie, magari può darmi una mano a raccogliere i libri.
Signorina! C’era ancora qualcuno che, negli anni Novanta, ti chiamava signorina… ah, un ragazzo della sua terra, di Trani… gentile ma per nulla timido, un ottimo entusiasta loquace studente di architettura, venuto a Firenze per passare dagli Svevi al Magnifico.
– Tutto a posto, nessuna storta, grazie… ma diamoci del tu, siamo studenti!
E dire che quel giorno, lei, non aveva neanche i tacchi. Ma aveva inciampato: era nel destino, era scritto! La vie c’est un roman… proprio come nel film, lo aveva sempre pensato. Pur nella quotidianità, non occorrevano le crociate avventurose degli avi. Esiste, per incontrare l’amore, un luogo più meraviglioso di Boboli? C’è, al mondo, uno scenario più giusto per innamorarsi di un quasi architetto? Aveva inciampato, e subito era stato amore: reciproco, istantaneo, a prima vista. […]
Si erano sposati nella Cattedrale di San Nicola, lo stesso giorno di maggio in cui, cinque anni prima, si erano incontrati a Boboli. Il cielo non era mai stato così azzurro, la pietra mai così pura e così candida. […]

Cose che non si buttano mai
Brescia, Piazza della Loggia

[…] Era stata l’operazione più lunga del trasloco svuotare quei due cassetti, era durata un giorno intero, perché si era messa a rileggere i biglietti, le lettere, le pagelle, le cartoline, gli inserti di giornale.
Ce n’erano anche alcuni sulla strage di Piazza della Loggia: quella bomba assassina del 28 maggio 1974, nascosta in un cestino portarifiuti… otto morti e novantaquattro feriti… a neanche un anno dall’attentato alla Questura di Milano, seguita, solo ad agosto, quando il clima era ancora arroventato, dall’attentato all’Italicus a San Benedetto Val di Sambro… quell’eccidio vigliacco, che aveva reso celebre quel civico rinascimentale spazio più di quanto avessero mai fatto, nei secoli, le plastiche realizzazioni dei suoi architetti.
Lei c’era quel giorno, più o meno nel centro della piazza, a quella manifestazione contro il terrorismo nero organizzata dagli allora uniti, gloriosi sindacati e dal comitato cittadino antifascista, mentre il cislino Castrezzati pronunciava il suo discorso. Non l’aveva potuto finire, era stato interrotto da quel tremendo boato, dalle urla, dal sangue, dalle invocazioni a Dio, dalle bestemmie, dall’arrivo concitato delle sirene. Otto morti, cinque uomini e tre donne: Giulietta Banzi Bazoli, Livia Bottardi Milani, Euplo Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti, Alberto Trebeschi, Clementina Calzari Trebeschi, Vittorio Zambarda. Come si leggeva sulla lapide commemorativa, lì sotto i portici della torre dell’Orologio, nel punto in cui la bomba era esplosa. Quella tetra, sia pur pietosa stele, accanto al lugubre manifesto che riproduceva, a perenne memoria, l’originale di quella tragica manifestazione tenuta alla Loggia il fatidico 28 maggio 1974. […]

 

Il campo dei miracoli
Pisa, Piazza dei Miracoli

Lorenza Garavini era toscana dalla punta dei piedi alla cima dei capelli, anzi pisana, anche se i suoi genitori erano originari di Firenze. La portava innanzi tutto scritta nel nome, la sua origine: quando era nata i suoi genitori avrebbero voluto Lorenzo, in ricordo del Magnifico che aveva dato la sovrana eterna impronta alla loro nativa città, che avevano dovuto lasciare da poco per Pisa a causa del lavoro del babbo. Ma era nata lei, una bambina, e così, dopo una vaga tentazione per Fiorenza, avevano trovato che fosse meglio cambiare la o con una a: Lorenza, andava bene ugualmente, in ricordo del Magnifico Lorenzo, perché no?
Le piaceva il suo nome, né corto né lungo, nobile per lei che era di modeste origini, non troppo inflazionato. Le pareva, anche, che le stesse bene. Lei somigliava alla dama sconosciuta dei ritratti del Pollaiolo infatti, quella del Poldi Pezzoli di Milano piuttosto che quella più controversa degli Uffizi, e un nome aristocratico, con quel volto lì, non guastava: il profilo puro nitido, il collo lungo diafano, la pelle chiara naturalmente fardata di rosa sulle gote, lo sguardo riflessivo, il mento e la bocca appena imbronciati, i capelli biondo scuro che, fino a vent’anni, aveva portato pettinati come la giovane donna del ritratto, evitando giusto il filo di perle dalla fronte alla nuca. Fino a vent’anni, perché poi c’era stato il Sessantotto, e allora aveva tagliato i capelli e aveva messo i pantaloni. A zampa d’elefante, come andavano allora. I capelli, invece, li aveva tagliati alla Jovanka, come nel film “Jovanka e le altre”: due millimetri, con quel profilo poteva permetterselo; e aveva cominciato a truccarsi un poco, in controtendenza con le sessantottine che bruciavano reggiseni e belletti, perché coi capelli così corti un po’ di trucco a suo avviso ci stava bene. Della dama del Pollaiolo ignorava come tutti le fattezze del corpo ma, dato il mezzobusto, immaginava che non potesse essere altro che statuario. Lei comunque, che quanto a bellezza da madonna natura era stata fin troppo beneficata, il corpo ce l’aveva simile a quello della Venere del Botticelli: chiaro, esile, liscio, coi seni piccoli… che forse ai ragazzi sarebbero piaciuti un po’ più grandi, ma… ‘un fa nulla, pensava, l’è ‘osì ch’a me mi gusta! Quando faceva la doccia col Badedas, che in quegli anni a confronto del Vidal e del Felce Azzurra era il massimo, con i capelli sciolti e inanellati, le sembrava di nascere non dallo stretto spartano piatto del semicubo di famiglia ma, come la Venere, tra la spuma del mare e da una leggiadra conchiglia. […]

 

Melodramma familiare
Milano, Piazza della Scala

La mamma aveva appena finito di cucire il nuovo abito di percalle rosa della sua bambina: un rosa intenso, caffeinato, come la rosa a palla, profumatissima e quasi senza spine che una volta l’anno, solo una volta l’anno, tra maggio e giugno fioriva copiosa nel giardino. Quando Lucia sarebbe stata adulta quella qualità, all’epoca così comune, l’avrebbero chiamata “rosa antica”, e “rosa antico” avrebbero chiamato anche il colore caldo di quel suo vestitino. Era tagliato in vita e aveva la gonna a campana, lei era una bambina esile e la ricchezza dello sbieco le sarebbe stata d’incanto, le manichine alla geisha attaccate al taglio dei fianchi e, unico ornamento, una cintura sottile di roselline in panno lenci, alternate: una bianca e una rosa chiaro, della medesima sfumatura del vestito. Con le stesse piccole rose la mamma le aveva confezionato due fermagli con cui appuntare i capelli: scuri, appena ondulati, di lunghezza media.
Lucia aveva allargato l’abito sul letto e lo osservava felice; vi aveva accostato, per vedere l’effetto dell’insieme, anche i calzini bianchi merlettati e le scarpette nere lucide col cinturino alla bebè. Che gioia! Avrebbe potuto indossarlo, la sera dopo, per andare all’Opera con il babbo, al Teatro dell’Unione, dove una volta l’anno, solo una volta l’anno, a settembre in occasione dei festeggiamenti della patrona Santa Rosa, era possibile ascoltare tre o quattro opere liriche. Generalmente sempre le solite, ad anni alterni con qualche piccola varietà. I Pagliacci e la Cavalleria Rusticana, sempre insieme data la loro breve durata, si davano ad ogni Santa Rosa; mentre invece, una volta l’una una volta l’altra, si alternavano, ad annualità intermittenti, La Gioconda o La Traviata, Carmen o Il Barbiere di Siviglia, La Bohème o La Tosca. Era stata una vera rarità, un anno, poter assistere a una recita della Lucia di Lammermoor, l’opera a cui lei, insieme al meno conosciuto epiteto della delicata fioraia della Bohème, doveva il suo nome. […]
Lucia la Scala l’aveva vista solo in televisione, quando negli anni Sessanta e Settanta si trasmettevano con grande enfasi, nonostante la contestazione giovanile e i tempi bui delle stragi, non ultima quella della vicina Piazza Fontana, i reportage sulle Prime scaligere e sui loro ospiti illustri.
Era l’epoca dei subliminali allestimenti di Strehler, di quelli magistralmente maniacali di Visconti, e la Scala era così radicata nella sua saga di famiglia e nella sua educazione sentimentale che, quando nel Sessantotto la borghesia milanese che si recava alla Prima era stata irrispettosamente colpita da uova marce e sberleffi, nonostante le sue idee rivoluzionarie di giovane universitaria, lei si era molto irritata. […]

 

Emicrania in cattedrale
Orvieto, Il Duomo

[…] Alle quattro e mezza, l’ora giusta per cominciare ad uscire, era pronta. La luce la colpì con uno spasmo frontale, con una dolorosa contrazione delle palpebre. Inforcò gli occhiali da sole e si incamminò in direzione di Piazza Duomo. Dieci minuti, un quarto d’ora dato che non era in forma, e sarebbe stata lì: le distanze in quel microcosmo, almeno quelle fisiche, erano minime. Non aveva voglia, in quello stato, di passare dalla traiettoria principale, rischiando di incontrare chi come lei si recava al concerto e di dover cominciare in anticipo gli inevitabili convenevoli. Avrebbe un poco allungato, ne aveva il tempo. Prese le strade secondarie e i vicoletti di cui il centro storico non era davvero scarso e, attraverso Via Cozza, Vicolo Albani e Via del Beato Angelico abbordò la Via Maitani dal lato di San Francesco.
Era l’ora migliore, in prossimità del tramonto, per arrivare al Duomo da quella parte, per osservare, mentre la luce del sole la rendeva ancora più candida e abbagliante, la mirabile facciata della cattedrale. La si scopriva quasi in progressione filmica avanzando dalla via piuttosto ristretta, come un dorato fastoso premio del desiderio. L’armonia celestiale dei mosaici, il fitto palinsesto delle decorazioni del marmo: un’abbondanza luminosa, eburnea, fatta di sublime mai eccessivo nutrimento, delle narrazioni scabre potenti della pietra. Dapprima la navata centrale, le due lucenti cuspidi della Madonna Assunta e dell’Incoronazione della Vergine, il lieve aereo rosone dell’Orcagna, incastonato tra lo stuolo marmoreo dei santi, dei profeti, degli apostoli, dei dottori della Chiesa; e, sul moderno essenziale portale bronzeo, il gruppo della Maestà vegliato dal leone di San Marco e dall’aquila di San Giovanni. Poi l’aprirsi delle navate laterali, con il toro di San Luca e l’angelo di San Matteo quali solerti sentinelle, i mosaici luccicanti delle cuspidi minori e, nell’estendersi dello spazio della piazza, sul cosmatesco sagrato, l’intero ergersi di quel perfetto svettante miracolo.
Era smisurata la mole del Duomo in rapporto alle dimensioni della piazza, di sconvolgente pathos rispetto agli edifici circostanti. Era, senza rinnegare l’umano, una sfida alla terra e un’ardua non incolmabile aspirazione al cielo. E la spiritualità, lo slancio, si avvertivano ancor più palesi se osservati dal fianco, con il punto di vista concentrato sul pilastro laterale: privi della distrazione di qualsivoglia bellezza accessoria, fermi sulla tensione delle spoglie vibranti nervature.
Tante volte Elena aveva pensato che celava, il Duomo di Orvieto, la cifra neppure troppo segreta della sua, di ogni atavica emicrania. […] 

 

Melita enchantment
Isola di Malta

Si viaggia, si viaggia, si viaggia tanto e si finisce per tornare, come ossessi, sempre agli stessi luoghi, pensava Flavia in preda alle sue rivisitazioni. Sono i luoghi che hanno un’effettiva concretezza o siamo noi che li rendiamo presenti e vivi, che li carichiamo di significati e di senso? E se così è, viaggiare a cosa serve? Le veniva in mente quel breve grandioso monito di Emily Dickinson:
De Soto, esplora te stesso –
È in te
il continente sconosciuto!
Forse serviva a questo il viaggio? A fuggire le distrazioni del quotidiano, ad esplorare – lontano, meglio – dentro se stessi? L’isola le dava una grande sensazione di distanza, la netta convinzione che, sebbene prigioniera delle abitudini e delle molteplici zavorre, avrebbe potuto liberarsene e vivere ovunque e comunque. Come non fosse affatto difficile ricominciare una nuova più pacata vita: anonima, vergine, meno zeppa di persone e cose, meno complicata. Quanto avrebbe potuto durare un’esistenza più semplice e vuota, quanto tempo ci sarebbe voluto per riannodare i lacci di quanto sembra indispensabile e non è invece essenziale? Avrebbe mai potuto, lei – umile inconsistente Flavia – come il San Gerolamo di Caravaggio deporre le vesti, attaccare il cappello, sospendere a qualche piuma il pensiero febbrile?
Quando, dopo le sue esplorazioni, tornava verso British Hotel – di cui, sempre più paga del terrazzino vista mare, continuava a non considerare la spartana polverosa approssimazione – si fermava a cogliere i raggi del sole al tramonto agli Upper Barrakka Gardens. Si sedeva su una panchina, di fronte all’impareggiabile scorcio della baia chiusa dalle tre città, si lasciava accarezzare da quell’ultimo tiepido calore. Si sentiva invadere di pace e, al tempo stesso, struggere dal profumo eccessivo di un fiore ormai troppo aperto, dalla polpa carnosa, ormai quasi sfatta, di un frutto troppo maturo. I giorni correvano veloci, era già ora di tornare. […] 

 

Fonte Gaia
Siena, Piazza del Campo

La storia di Persefone gliel’aveva raccontata Amalia Lopes, la pediatra, quando lei, Chiara, era ancora una bambina. Amalia Lopes sembrava proprio una spagnola ma era calabrese, faceva il medico, e aveva lasciato da tempo la sua terra perché, diceva, di una cosa era stata certa già a sedici anni: che voleva andare a studiare e a lavorare altrove, che non voleva invecchiare e morire sul Corso di Catanzaro. Così, dopo la laurea e la specializzazione alla Sapienza di Roma, con molto impegno aveva vinto il concorso alla clinica pediatrica dell’Università di Siena. Quando era arrivata aveva colpito tutti per la sua straordinaria bellezza, giunta al pieno di un’espansiva generosa maturità.
Abitava nell’appartamento mobiliato che il babbo affittava di solito agli studenti: perché, diceva, anche se dell’affitto non c’è bisogno, vuoto deperisce e si deteriora. Proprio di fronte al loro, nel restaurato rifinito stabile di Via Duprè che il babbo aveva acquistato per la famiglia e che si trovava, più o meno, all’altezza di Palazzo Masi. A pochi passi dal Campo, dietro il palazzo pubblico, all’ombra della svettante torre di Giovanni di Duccio il Mangiaguadagni, “il Mangia”, il suo primo campanaro. Era stato felice, il babbo, che quel bell’appartamento glielo avesse chiesto una medica, che certamente lo avrebbe mantenuto meglio, molto meglio, commentava, di que’ citti screanzati dell’università.
Amalia Lopes in effetti lo teneva in gran cura, aveva addirittura migliorato l’arredamento, messo fiori e erbe aromatiche ai davanzali, tende di organza lattea alle finestre e, davanti alla porta, un tappetino bordato di foglie d’edera con sopra scritto Welcome; e aveva comperato un paio di comode poltrone moderne e un’altra libreria perché, con tutti i libri che si era portata dietro, quella in dotazione si era rivelata del tutto insufficiente. Aveva appeso foto e manifesti persino nello spazio comune del pianerottolo, dopo aver chiesto il permesso naturalmente. Parigi, tanto per essere chiari, che a lei forse anche Siena le stava stretta: il Grand Palais, i Grands Boulevards, l’Étoile et l’Arc de Triomphe, e il bacio anni Cinquanta davanti all’Hôtel de Ville di Robert Doisneau. Mio Dio, pensava Chiara che all’epoca aveva sì e no sette anni, è così che da grande vorrei essere baciata!
Teneva sempre, in casa, i fiori e i cioccolatini, e quando lei andava a trovarla le chiedeva, come a una persona adulta, se per caso gradiva un tè. Un tè alla menta, che lei, Amalia, la menta ce l’aveva fresca sul davanzale. Glielo serviva nel bicchiere, perché il tè alla menta si serve nel bicchiere, argomentava categorica. Certo che lo gradiva! Adorava quelle visite ad Amalia: con il cioccolatino e il tè alla menta; e una storia che ogni volta Amalia le raccontava.
“Persefone – le aveva narrato quel giorno, di marzo, forse proprio il ventuno, mentre sorbiva un tè nella tazza e senza menta, che la menta nel vaso non era spuntata ancora – Persefone era la figlia delicata e piena di grazie di Zeus e di Demeter. […]

 

Quasi un secolo
Vigevano, Piazza Ducale

Norma era nata il 2 giugno del millenovecentosedici, concepita in una tarda estate, pochi giorni prima che suo padre, indomito interventista, guadagnasse il fronte del Carso per la grande guerra. Quando aveva visto la luce, in un’alba chiara e fresca, suo padre era assente già da mesi, e sua madre l’aveva partorita senza eccessive difficoltà tra la levatrice e le cognate. “Carissimo Corrado – aveva fatto scrivere al suo sposo, lei analfabeta, dalla cognata più istruita – questa bambina è nata buona e liscia, con i giusti dolori, senza le sofferenze e le fatiche che mi ha procurato la nostra prima figlia”. E, buona e liscia come in quella prima promessa, era rimasta praticamente tutta la vita. Per tutti – Norma, la signorina Norma, nostra sorella Norma, la zia Norma – era ed era stata da sempre un punto di equilibrio, una garanzia, un riferimento.
Chissà perché, aprendo la finestra al risveglio, le veniva in mente quello squarcio del racconto della sua nascita. O forse era del tutto normale. Era il 2 giugno duemiladieci infatti, e proprio in quel giorno compiva novantaquattro anni. Un’invidiabile età, pensò inspirando in lenta profondità l’aria e il silenzio del primo mattino, per giunta portata così bene da renderla ancora autonoma. E rivolse grata un pensiero al suo Dio. Sì, tanti piccoli acciacchi, le accortezze, le medicine, la vista e l’udito piuttosto deboli, ma neanche il bastone nonostante l’artrosi e, sia pure con qualche aiuto domestico, la possibilità di poter vivere ancora da sola. Sì, qualche piccolo vuoto di memoria, specie per le incombenze del presente, ma un’interiorità affollata di eventi e persone, di opinioni e rapporti, e uno sguardo sul mondo ancora informato e lucido.
Aveva la fortuna di abitare in quella che lei considerava una delle piazze più belle del mondo, e anche se nulla di particolarmente straordinario era mai accaduto nella sua vita, considerava straordinario, se non altro, quel meraviglioso palcoscenico che le era toccato in sorte. Non si era mai abituata a quel trionfo di armonia e bellezza; e ogni mattina, e anche più volte al giorno, con sua grande emozione quel miracolo di stupore si rinnovava. Certo, non era ovunque celebre la Piazza Ducale di Vigevano, non come Piazza San Marco o come Piazza San Pietro, ma quanto a scenografico splendore, nel suo genere più misurato e provinciale vi poteva ben competere. E a dire il vero, per la sua tranquilla ma comunque animata magniloquenza, Norma la sentiva come la piazza davvero esatta, perfetta, “giusta per sé”. Avrebbe potuto non muoversi mai e quello spazio, quel domestico eccezionale cortile sarebbe bastato alla sua vita. […]

Margherita e l’arcangelo guerriero
Mentone

[…] Scrivere era una strenua, ostinata Resistenza: le veniva da pensarlo proprio così, quel suo atto creativo, con una bella erre maiuscola. Resistere al sonno, innanzi tutto: quando stanca dei ritmi sostenuti del lavoro, dei tempi concitati, delle relazioni umane non sempre semplici della giornata, a tarda sera innalzava una barriera alle occupazioni che continuavano a incalzare pressanti e indiscrete; quando, nel cuore della notte se non era proprio stremata, lasciava finalmente liberi i fili di quelle invadenti trame. Resistere alla volgarità, perseguire quelle sue tessiture di piccola, minuta bellezza: scovarla mostrarla, la bellezza, nell’alveo insospettato improvviso del quotidiano. Resistere alla banalità: cercare, cogliere momenti originali, preziosi; incastonare la pura gemma della parola in un granello di senso. Resistere all’odio, alla prevaricazione, alla violenza: nient’altro che con la parola gentile, con la dura pietra della parola logica. Resistere al grigiore, alla tristezza: spargendo il polline raro, dorato dello sguardo che riesce a fermarsi e a vedere. Resistere al consumo e al superficiale eccesso, alla trappola della persuasione e della retorica: resistere con il silenzio vuoto dei santi, con la cura che spoglia e scarnifica il superfluo.
Sì, aveva molto desiderato quel tranquillo soggiorno a Mentone. Andare in un luogo che si conosce piuttosto bene, abbastanza per non esserne distratti. Fermarsi, per ascoltare senza trambusto il cuore, in un luogo che si ama. E quel luogo, lo aveva sentito in una mattina gelida di febbraio, quel luogo non poteva essere che Mentone. Il borgo ocra, arrampicato, protetto che, tra i due golfi, aveva rinnegato i Grimaldi; la città giardino delle palme, dei fiori tropicali, degli agrumeti, dominata dalla rosea barocca sagoma della Basilica di San Michele Arcangelo. […]