di Anna Maria Crispino
C’è chi, a ragione, ritiene che dietro una buona scrittrice ci sia sempre una acuta pensatrice. Infatti, una scrittura ben riuscita come quella di Laura Ricci in questi racconti, rimanda al pensiero, alla dimensione di senso, allo sguardo attento di un’autrice che affila le parole, le mola e le cesella, per restituirci della realtà e delle vite quelle che lei stessa chiama “tessiture di piccola minuta bellezza”, ma che sono invece soprattutto una diagnosi poetica del mondo grande.
Le dodici storie che compongono questo vasto affresco, intrecciate ad altrettante città vissute e narrate come luoghi dell’anima – mai cartoline, sempre significanti – non hanno tuttavia nulla di certo minimalismo che pure ha segnato parte della recente narrativa italiana: non semplificano, non riducono, non banalizzano. Al contrario, pensano la complessità del presente, mettono in scena le molteplici figurazioni del femminile, rifuggono dal facile bianco e nero per disegnare tutte le sfumature, le differenze, le possibilità, i valori. La bellezza, dei personaggi e dei luoghi, sarà pure “minuta” ma è tale nella sua pienezza. E’ una bellezza carnale, materica, di corpi e di pietre, di carne e di luci, di forme e di scorci visivi che delimitano spazi ma non orizzonti. Vederla, la bellezza, restituirla a chi legge per contagio, ha il sapore di un gesto etico, raro e prezioso, che la letteratura riesce a filtrare nel piacere della lettura.
Come per ogni affresco, dopo uno sguardo d’insieme per coglierne il disegno generale, occorre guardare ai dettagli. Così, dopo una prima lettura vorace per arrivare alla fine delle pagine, ci si accorge che più volte, nel testo, Laura Ricci adotta un movimento narrativo che parte da un punto apparentemente marginale per poi dispiegarsi in un ampio respiro, dall’interno all’esterno, da una camera a una piazza, dal privatissimo domestico alla magnificenza del luogo pubblico per eccellenza. Così, ad esempio, in “Incipit” – il racconto d’apertura – una casalinga intenta a rifare il suo letto riflette sull’ipotesi di cambiare le lenzuola. E come capita alla Mrs Dalloway di Virginia Woolf – che, ricordate, è uscita di casa per comprare dei fiori – un flusso di pensieri le si affolla nella mente, pensieri sulla sua casalinghitudine forzata, sulla sua “vita fuorimoda”. Una vita che però, volendo, può cambiare. O come in “Cose che non si buttano mai”, dove il tema del letto da rifare, anzi di una trapunta da sostituire, si ripresenta come grilletto di un volo della mente che rievoca amori e vicende politiche e tragiche vissute proprio lì, nella piazza a cui la casa è prossima, a Brescia, nel 1974.
C’è un legame forte ma mai forzato fra le protagoniste dei racconti e i luoghi in cui abitano o in cui si recano: Verona, Roma, Torino, Trani, Brescia, Pisa, Viterbo, Milano Orvieto, Siena – ma anche Barcellona, Malta, Mentone. E Vigevano, la sua magnifica piazza e il suo Duomo, nel bellissimo “Quasi un secolo”, omaggio commosso – così l’ho letto – a quelle innumerevoli vite femminili che solo dall’esterno possono apparire insignificanti: Norma, infatti, non ha mai lavorato, né si è sposata, ha vissuto la sua lunga vita con gli altri e per gli altri, da figlia, sorella, zia. Ma ha scelto così, consapevole forse, e paga, della sua sapienza nel tessere relazioni tra i componenti della sua grande famiglia e con il mondo. E’ una donna che ha una “vasta, affollata memoria” e che nulla rimpiange in quel luminoso giorno speciale, il 2 giugno in cui compie 94 anni, perché “alla sua veneranda età, si sentiva ormai autorizzata a mettere qualche filtro tra sé e il mondo”.
Nei luoghi si nasce, si vive, si resta. Ma si può anche andar via, partire, per cercare silenzio, requie, spazio per sé, risposte su di sé. Flavia, in “Melita enchantment”, va a Malta e trova quel che cerca guardando con attenzione, da sola, senza interferenze. Margherita ha bisogno di andarsene a Mentone per riuscire a farcela, a chiudere il suo libro, all’ombra di un arcangelo che innalza una spada senza ferirla.
E infine, sottotesto potente di tutti i racconti, la forza e il senso dei rapporti tra donne: tra amiche, che si ascoltano e si curano; tra madri e figlie; tra adulte e bambine, come esemplarmente in “Fonte Gaia”, dove Chiara – “un’intermittente inafferrabile Persefone” – riconosce nella sua pediatra la “umana calda fonte sapienziale della sua vita” anche quando, ormai adulta, fa della sua casa la tana in cui rifugiarsi. Una vita in bilico la sua, minata dall’anoressia e da amori sbagliati, che si rispecchia in qualche modo in quella di Elena, la protagonista di “Emicrania in cattedrale”, che interpreta gli insopportabili mal di testa che l’affliggono come pause di sospensione in cui il corpo, il dolore, comandano, ma che sa rimettersi in gioco perché, dice, “ogni esistenza aperta, nel bene come nel male, si complica”. Complicate e complesse, multiformi e sfaccettate sono le esistenze delle protagoniste di Laura Ricci, che molto assomigliano a “le donne che siamo diventate” a partire dalla seconda metà del secolo che abbiamo ormai lasciato alle nostre spalle. Ma che l’autrice ci racconta con una cifra letteraria che riesce a trasfigurare l’autobiografismo e l’ideologia, che non cade mai nella tentazione del bozzettismo o del ritratto di maniera. Non “tipi” dunque, ma vere e proprie protagoniste di una narrazione che contrasta la volgarità e l’insensatezza delle rappresentazioni massmediatiche e il conformismo ottuso della politica.
Di personaggi così abbiamo estremamente bisogno, noi donne e lettrici di diverse generazioni – e i lettori, uomini, forse addirittura più di noi – perché sono lo spettro di possibilità che la rivoluzione del Novecento ha aperto per noi. Possibilità di essere, di libertà, di scelta, di espressione dei desideri. Di scritture come quella di Laura Ricci abbiamo bisogno, perché la bellezza della scrittura, il balsamo dell’affabulazione, la qualità delle storie ci consentono, o almeno ci aiutano a resistere in un tempo divenuto bastardo.