di Guido Barlozzetti
Il sole braccato, mai rischiarante l’intero giorno. Quell’immagine esce dalle pagine della strega poeta e, prima di fissarsi in una memoria, nell’emozione di una memoria – come dice lei – si impone con la sua presenza interrogativa. E, nelle circonvoluzioni segrete che la lettura intrattiene con – dentro? – un testo, si impone e diventa segno di un gioco di segni. Il sole braccato che lotta per esplodere nella totalità della sua fiamma e non ci riesce, assediato, forse minacciato, perché basta una nuvola ad affievolirne i raggi e perché quel bagliore si tocca col bordo della notte.
È lì che si aggira la strega poeta. Figura di un lavoro. Emblema di una possibile metamorfosi, Caronte che vorrebbe traghettare dalla realtà all’immaginazione. Quel sole braccato – e il fantasma del nero in controluce – nascondono e rivelano. Ma la loro epifania non ha a che fare con un territorio, con una mappa cartesiana, una geografia con longitudini e latitudini ordinate nel tempo e nello spazio. Non ci troviamo in un panorama, seppur contrastato, ma sul bordo di un’intersezione che è un punto di vista, quasi una faglia su cui le differenze si toccano e fanno attrito. Varco che manifesta la mancanza che fa nascere il linguaggio, contatto che genera la parola. Crepitante e piegata su se stessa, rumorosa e impercettibile, mai piana, volgare, banale. Ovvia.
Quella linea coincide con la scrittura. Fantasmagorica, cangiante, ambigua, mutevole. Sospesa tra il volo fiducioso verso il cielo e il rischio temuto – forse provato – dell’abisso, tra il giallo dell’autunno e il germoglio vibrante di primavera. È il diagramma dei sensi e delle illuminazioni della strega-poeta, la sua costrizione e la sua libertà. Di volta in volta, quell’angelodemonio dà – si dà – l’illusione di fermarsi, di chiudere un senso, ma solo per sentirlo attraversato dal pulsare di ciò che lo nega, solo per avvertire che l’altro sta inesorabilmente arrivando. Ora si concede alla pazienza dell’attesa e le parole che tornano alla bonaccia del letargo, tese all’ascolto, “indagano per divenire freccia il nuovo tendersi dellarco”. Ora si consegna tutta alla forza inarginabile ed esaltante dell’amore, che è sacrilego contrastare. Ora si ripiega, dopo l’accensione fino all’orgia, nella ricerca di una misura, di una mediazione, di un’umiltà del vivere. Il porto e la tempesta, l’illusione di una saggezza che rassicura e il moto improvviso che rapisce e squassa.
La poesia in questi versi è stregonerìa. E viceversa. L’incanto non si dà che con l’incantesimo. Il fluire delle emozioni, che si rovesciano addosso e possono trafiggere l’anima, convive con quella pratica misteriosa, febbrile e raggelata, del linguaggio. Ma non si tratta - anche quando viene annunciato, detto – di un programma o di una dichiarazione d’intenti. La poesia è dentro di sé magìa, per quello che è e per quello che può fare. Non si limita a contemplare, ma si pone su una fessura che può essere lacerazione, ferita, piacere. Ed è attorno a quel taglio che quell’esserino infero e celeste non cessa di offrirsi al suo insaziabile vizio, trasportata dalle parole e insieme ardita al punto di sottomettere ad esse la vertigine sempreuguale e scheggiata della realtà.
Veggente e profeta, quella creatura ondivaga, insetto coscienzioso che consuma la sua parabola tra fiore e fiore, sente su di sé la fatalità delle cose, il loro eterno ritornare nello stesso punto, ma ne vive ogni attimo come se fosse il primo o l’ultimo, la cellula germinale o l’alito estremo. Anche la strega poeta è sottoposta al dominio del tempo, ma ha il potere di attraversarlo, scomporlo, rovesciarlo. Può contemplare la linea o la spirale della vita, spezzarne la retta, invertirne la direzione e polverizzarla fino a concentrarsi su un istante. Avanti e indietro, ricordi che diventano visioni e futuro che ritrova un passato. Desiderio e pace. E quel potere è anch’esso una necessità, ma di libertà.
Lei lo dichiara. L’ostinazione della poesia. E se ne assume l’onore oneroso, perché il gioco è inseparabile dal dolore. La poesia salva ma non perdona. È un destino inseparabile dal rischio, che gli antichi riconducevano all’entusiasmo di un’etimologica immedesimazione nel dio. Per questo, mortale.
Si sente in questi versi, si sente che la magia si esercita su un fondo sofferto, a volte alluso, con il liquore della nostalgia e l’amarezza per un cerchio che non si è chiuso. L’avvolge un’oscurità che cerca di dirsi o di essere detta, di superare la barra che separa il corpo dalla parola. Come il parto difficile di una farfalla che anela ad uscire dall’involucro della crisalide e spera di levarsi sulla pesantezza opaca del mondo. Svolazzare secondo traiettorie mai euclidee, spandendo ovunque la polvere magica delle sue parole d’ordine, ”la commozione della tenerezza/ la capriola sublime della bellezza/ l’acrobazia difficile della semplicità”, ”la magica centrifuga” che trasfigura la “tritabanalità”.
E, alla fine, arriva esplicita, esibita senza timori e reticenze la confessione che si rovescia su tutto il percorso. Quasi fosse il climax di una narrazione, perché – se ne ha a un certo punto l’impressione – queste poesie sembrano i frammenti di un percorso da ricostruire, i resti o i barlumi di una storia che forse, prima o poi, dovrà essere raccontata. O che, invece, come ripercorsa da un ”dopo”, non abbia altro modo di dipanarsi se non nelle stanze separate e ambigue della poesia.
Alla fine, la strega poeta si dichiara e offre la carta dellisola del suo tesoro, trappola e tangente del desiderio. Svela l’ossimoro che la costituisce.
“Lesorcista dei segni
l’angelo decaduto ribelle
senza spada dell’amore”.
Un passo prima dell’immagine della vecchiaia, anticipata retrospettiva che si chiude sul silenzio.