di Teresa Mariniello, Architetto
Quando ho terminato la lettura dei bei racconti di Laura Ricci questi mi sono apparsi come tenuti da due fili; leggeri, nel senso calviniano del termine, stavano sospesi su di me che li guardavo vibrare nell’aria, intrecciati eppure liberi tra loro.
Il primo filo riguarda le scelte di vita delle protagoniste: tutte, mosse da un’interiorità complessa e ricca, tutte, in ricerca di una giusta espressione di sé, sono senza un compagno di vita. Eccetto la prima, appaiono mano a mano vedove, nubili, single, amanti, separate, e nessuna di queste è felicemente, o meglio “pienamente”, con un uomo.
Non si sente, in questa condizione, né il peso della rinuncia né quello della sofferenza, è come esprime bene Norma: …e senza un forte e convinto desiderio non aveva nessuna intenzione di rinunciare, per un marito di comodo, a quel che riteneva il suo bene supremo: la sua piena, interiore libertà.
La libertà le protagoniste la vivono in luoghi cittadini, insieme a sentimenti come accoglienza, armonia, calore. Si tratta di città diverse tra loro ma, ogni volta, sono lo sfondo appropriato alla storia delle protagoniste e hanno nella piazza un segno del loro carattere; è qui che queste donne aprono il loro cuore, qui trovano conforto e confronto, qui affermano infine la loro identità.
La piazza ha comunemente connotati di apertura, dal latino platea “strada ampia”, dal greco πλατύϛ “largo”; dall’antichità classica è luogo di scambio, di incontri, di rappresentazione del potere politico e religioso, è un possibile crocevia di genti, fino ad essere in tempi moderni, a partire dagli interventi di Haussmann a Parigi con la creazione dei famosi boulevards, snodo stellare in cui convergono lunghi assi stradali, e per agevolare i nascenti problemi di traffico e per offrire vedute prospettiche centrali su monumenti di rilievo.
Il secondo filo che tiene i racconti individua la piazza come luogo in cui si esprime l’interiorità delle protagoniste; i loro dubbi, percorsi, scoperte, decisioni, desideri.
E a prima vista sembra una contraddizione, ma la piazza è, oltre le cose dette, anche il luogo della memoria collettiva, della testimonianza delle vicende umane che si sono accumulate nel tempo e poi sedimentate e ancora accresciute per i tanti eventi pubblici e privati; tracciati di vie, segni di confini, costruzioni di guglie e lastricati, pozzi e lavatoi, angeli oranti e obelischi carichi di vittorie non sono altro che gli anelli di un grande albero che vive e respira.
La memoria è la coscienza della città e la percorre tutta come fosse linfa, così come accade a ogni persona.
La memoria è rinnovata ciclicamente dalla celebrazione dei riti, e questi mutano a seconda delle generazioni che si succedono, arricchendosi di nuovi elementi o trasfigurando i vecchi, ma lasciando sempre il nocciolo antico, la realtà primigenia che occorre ricordare.
E questa non è altro che la relazione particolare tra il sito e coloro che lo hanno scelto come proprio, che lì, precisamente lì, hanno edificato la casa collettiva, la città.
Esiste una vocazione del luogo a farsi architettura, esiste una relazione tra una situazione ambientale e la costruzione che sorgerà; il sito era, ma ancora oggi è a ben sentirlo, vissuto dal “genius loci”, da un’antica divinità intermedia che presiede e cura quanto c’è e poi si svolgerà di ampiamente collettivo su quella terra appena arata.
I punti singolari e caratteristici sono ancora presenti nelle città, talvolta si tratta di un’altura con un bosco ombroso in cui è accaduto un avvenimento peculiare, oppure di un anfratto roccioso pieno di echi, o spesso di una polla d’acqua che diventa sorgente, che diventa fontana, che diventa punto focale di una piazza.
Non a caso vicino alla fontana Gaia in Piazza del Campo a Siena trova rifugio Chiara quando la sua anima è in pena, al cuore liquido e trasparente unisce il suo infiammato e frantumato, nel fluire lento e cheto si rasserena come in una vecchia ninna nanna; sembra quasi che senta le vecchie voci senesi che salutavano contente l’arrivo dell’acqua nella piazza e così la battezzavano. Gaia. In ricordo.
Così Chiara torna alle sue origini, all’essenza di sé, del sentimento difficile che in quel momento vive, accucciata nella forma di conchiglia della piazza prende forza per uscire dal conflitto con una nuova consapevolezza, ben allineata col forte senso civico di giustizia che sempre l’ha animata.
E in questo simile a Chiara è Norma, anche se distante nella cultura e negli anni; all’apparenza relegata in un ruolo antico è in realtà più autonoma e lucida nel compiere la scelta della sua vita, vivere non un solo amore fin troppo nobile, ma un sentimento caldo e allargato a quanti si affacciano alla sua esistenza.
La cornice è questa volta la Piazza Ducale di Vigevano, sobria e raccolta, elegante e uniforme nei suoi portici, geometricamente definita in un unicum intorno al vecchio foro di cui reca traccia l’invaso spaziale, ben adatto a diventare successivamente la splendida anticamera del Palazzo Ducale. L’ abbraccio di Norma si rispecchia in quello dei portici, ritmati dall’interasse delle colonne e dai calmi passi quotidiani; come un’ombra leggera appare la figura della donna proiettata sull’acciottolato di sassi.
Così la vedo nella bella foto di Ambra Laurenzi che chiude i racconti e quasi ci saluta, mentre prima, seduta e immersa nella lettura, con ancora uno sfondo di superficie lavorata, ci invitava a fare altrettanto. Leggere e insieme godere delle immagini: piazze con lunghe proiezioni d’ombra che aiutano a percepire l’altezza degli edifici, fasci di colonne ornate da tralci di vite, figure allegoriche con sfondi di alti azzurri, timpani dorati che catturano luce.
Viste di scorcio, particolari enucleati meglio colgono i segni che caratterizzano una città, vicino è la voce di Italo Calvino nel suo dire: ” …la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, nei corrimano delle scale…”.