Gli angeli del Mochi

da “L’antropometro”, periodico curato da Guido Barlozzetti
articolo scritto un mese dopo l’alluvione dell’11 novembre 2012 a Orvieto

raccomandatiRoma, Palermo, Bari, Firenze, Milano, Orvieto… Comunque termini, la città per me è sempre donna, anche se finisce per “O”: cava, sollecita, creata per proteggere e accogliere. Palermo, lontano da ogni bruno stereotipo, la immagino come una principessa normanna: tratti affilati, chiome di miele, occhi cielo o castagna. Milano la penso dama risorgimentale: boccoli scuri, incarnato candido, aristocratica come in un ritratto di Hayez. Orvieto la vedo come, nella Cappella del Corporale, la Madonna dei Raccomandati di Lippo Memmi: grande, aureolata, ieratica nell’arioso manto cobalto. Sotto le ali del mantello gli umani: piccini, inermi, a chiedere considerazione. E ancor più così me la figuro in questi giorni marroni di fango: nel dolore spaesato, nello sbigottimento di una tragedia che in un attimo ruba e sconvolge. Immota sulla rupe, ferita al cuore da quanto accade alle pendici. Anche lei ha le mani giunte, prega, non è esente dal domandare cura e grazia. Volto perfettamente ovale, disteso, quasi impassibile, eppure…

Lasciamo stare, in questa sede, le pendici: meriterebbero un lungo trattato sulle vicende della speculazione edilizia, sulla cecità egoista degli affari. Con l’antropometro dei Barzini, umilmente e velocemente proviamo, almeno in parte, a misurare la rupe, a immaginarne una possibile veste. È cambiata in questi ultimi anni anche la città alta: dopo la Rinascenza del Progetto Orvieto, che sembrava averla restituita smagliante, se non dal fango da altro appare comunque ferita. Forse dalla stoltezza indecisa di noi umani, che quel progetto non abbiamo saputo portarlo fino in fondo – la mancata mobilità alternativa, ad esempio, il mancato sviluppo di un vero polo congressuale – che della città non sappiamo ritrovare, complice la cappa della crisi, l’antichissima funzione aggregante, e il filo etico-estetico di un unicum che unisce e identifica. A che punto siamo, oggi, a Orvieto? Non parlo di strutture e servizi soltanto, intendo anche atmosfere, relazioni, il termometro dell’empatia e dell’accoglienza.

Provo a percorrerla, Orvieto; mi chiedo, mentre mi muovo tra cardo e decumano, cosa per chi non si accontenta non va. Forse una singolare frammentazione, una parcellizzazione degli elementi di ingombro, una protezione eccessiva che stride con la dimensione amichevole, misurata dello spazio.
Tavoli, tavolinetti, fioriere scomposte, ogni genere di orpelli: ognuno a suo modo, ognuno a suo gusto. Vorrei vederla come quelle città fiorite di Francia dove, all’aperto, la sedia ha un unico modello, il tavolo una misura esclusiva. Vorrei vederla senza catene, colonnine, paletti, senza gli orrendi dissuasori di velocità. Non sono certa che garantiscano l’incolumità, o comunque non sono disposta a pagarne il prezzo di disordinata bruttezza. Vorrei vederla senza il continuo flusso delle auto, senza le piazze ingombre dell’imprescindibile oggetto del secolo appena trascorso.

Ma chissà, forse sarebbe vuota e triste, tanto ci siamo chiusi in casa ormai; tanto abbiamo perduto il gusto di chi, in provincia, trova un salotto nella strada: pettegolo, forse, ma anche relazionale, umano. Chissà se, senza traffico – “slow” come avevamo deciso e promesso, come tra spinte contrapposte non abbiamo mantenuto – riusciremmo davvero a riappropriarci degli spazi, a farne un motore moderno di agio e di sviluppo. L’unico su cui possiamo contare tra tanta bellezza di pietre e di santi. Effigi che se non ridiamo loro un’anima si sgretolano, almeno simbolicamente, sotto la grigia patina dell’indecisione, fra tentativi di rianimazione isolati e dispersi.
Sarebbe meglio fare meno, ma più uniti, più efficaci. La città sembra aver perso il suo proverbiale cuore, la sua mappa, la carta sensibile di una calda produttiva relazione. La gente non ha troppa voglia di incontrarsi, o meglio di mescolarsi: ognuno frequenta i suoi somiglianti e il suo abituale ambiente, ognuno organizza il suo evento, la sua “cosa”. Nel risparmio, perché i soldi non ci sono. Nella frustrazione, nella pratica del “tutto all’ultimo minuto”, nell’incertezza. Sacrificando, di ogni “cosa”, l’aspetto più importante: una vera, chiara, proficua comunicazione.

Non mi è congeniale accettare l’infiltrarsi di una rassegnazione cupa o quanto meno silenziosa, il persistere di propositi che da troppo tempo restano buone intenzioni. Sempre a caccia di lampi di bellezza, di cristalli smaglianti, di bagliori gentili, noto, nel tempo, un accanirsi di alcuni, un ritrarsi di altri, come se tutto non possa scorrere che così. Complici la crisi, la spending review. Vere, anzi destinate a salire, non ancora al culmine, ma conclamate, reiterate, replicate, consumate al punto da togliere il sano guizzo di una progettualità alternativa, di una qualche reazione. Dopo l’era dei consumi sfrenati dovremo abituarci a far fruttare il poco, ma non è detto che il meno debba essere il peggio, che la misura debba essere scadimento. Dovremo imparare a far diventare ricchezza il semplice e il sobrio. A stare insieme più per fare che per discutere. E a fare anche quando “altri” non fanno per tutti.

Abbiamo avuto un’estate lunga e molto calda quest’anno (2012) e, dopo un autunno di piena devastante si prospetta, forse, un freddissimo inverno. Le stagioni sembrano di nuovo nette, decise. Ho notato, sempre vagando tra cardo e decumano, che in estate in alcuni angoli di città abbiamo offerto ai turisti, ma anche a noi stessi, la visione di ciotole dalla terra spaccata e riarsa, dai “furono fiori” miseramente bruciati e morti. Sintomo della crisi e della spending review, del pubblico che non può più permettersi il lusso di personale che pensi al verde quando non piove. Sintomo dell’abitudine a delegare di chi, su quegli angoli desolati, ha le proprie attività, dell’incapacità di vedere e di reagire col soccorso di un’innaffiatura forse non propriamente dovuta ma pietosa e provvidenziale. Sintomo, magari, della miope soddisfazione di poter dire che “guarda dove siamo arrivati, l’amministrazione non vede nulla, non pensa nemmeno a dare un po’ di acqua ai fiori”… Sintomo fra i tanti, che l’antropometro registra.

mochiSe osservo Orvieto, dopo questi giorni di fango, se provo ad ascoltarne il respiro, mi sembra di avvertire una Madonna Addolorata più che una Mediatrice, una Protettrice, un’Assunta. Provo a pensare a un qualche inviato speciale, a una serie di inviati speciali, a una schiera di inviati che possano risollevarla. Che sappiano ricominciare a tessere il filo d’oro della bellezza, la gemma rara di una ragionata relazione. Me li immagino come l’angelo del Mochi: decisi, imperativi, indicativi. Uomini e donne non di buona volontà, ma di aperta, condivisa, programmata azione. Le vesti vorticose muovono l’aria, dissipano polveri e nebbie, spargono il seme della Rinascita.