La purpurea ferita. Alessio Brandolini racconta il male inconsapevole

il-male-inconsapevole-brandoliniUscito a dicembre 2005 per “Il Ramo d’Oro” Editore, nella collana poetica “Sillabario in versi” diretta da Gabriella Musetti, Il male inconsapevole di Alessio Brandolini, più volte esplorato e letto e ri-letto non finisce di stupire. E dunque, come tutto quel che è stupore, arricchisce e mostra nuovi orizzonti.

Sono frontiere che si aprono in fonde crepe verticali più che in vasti, orizzontali spazi, ferite penetranti che in questi testi poetici affondano non nelle linfe sotterranee del repertorio materico di Brandolini poeta della terra, ma direttamente e impietosamente nel corpo dolens dell’uomo. Homo patens, che quanto più non si sottrae tanto più patisce, attraversato da un male che seppure nominato come inconsapevole è tuttavia perfettamente reso, in tutto il suo crudo infierire, dall’estrema lucida consapevolezza della parola poetica.
Non a caso “la ribellione consiste – come implode dalla folgorante epigrafe iniziale mutuata da Alejandra Pizarnik – nel guardare una rosa fino a polverizzarsi gli occhi”. Non a caso la rosa è posta, nell’illustrazione del libro, su un piano ad appassire piuttosto che a durare nell’acqua, affidata al nero china di Stefano Cardinali.

La strategia del sonno
isolata nel vuoto
presa all’arpione
sottratta alle tenebre
è la nostra memoria
ripulita dal rancore.

Così le immagini
assillano di meno
delle rose rosse
bruciate dal dolore.

E chissà se è circostanza fortuita quella raffinata, rugosa copertina di rugginoso carminio della bella edizione de Il Ramo d’Oro, fatto sta che si addice come non mai al lessico ricorrente del verseggiare, denso di richiami purpurei e laceranti.
Dalle rosse foglie autunnali stracciate dagli spini (pag. 12) alle lingue e ai palati che, alla ricerca di un disperato piacere che lenisca, si rincorrono e si trafiggono (pag. 13).
Dal rosso scandaloso uscito dalle labbra cucite (pag. 58), alle vene gonfie o svuotate del purpureo liquido; dalla “bocca” dell’odio al “fuoco” della voce.
Dal flusso caldo e violento del suicida della notte di Natale:

Gli lisciava il petto come una lama
l’inguine e il sesso a riposo da mesi.
Il sangue era un mazzo di fiori
disciolto sul cuscino e sul pigiama.

alle mani ricorrentemente trafitte da chiodi, palese cifra della passione delle passioni, quella emblematica del Cristo:

il decimo pezzo è sempre il più difficile. Ti fa sentire un cannibale che vorrebbe indietro i muscoli dei suoi vent’anni. Con il tuffo al cuore che mi prende ogni volta che ti osservo…

Le tue labbra sono la spugna immersa nel sale
di un sogno e quando le bacio resto a lungo incollato
con tutto il corpo e lo spirito e le gambe s’esibiscono
in un erotico tango argentino: ti amo
e voglio che mi ami come si ama quando si ama molto.

Però ci sono i chiodi nelle mani, dici, e non puoi non vederli, non sentirli nella carne lacerata.

Dal bisturi che ripetutamente incide la piaga all’inferno della marana del Prenestino.
Per non parlare del carminio suggerito o esplicito di alcuni titoli: il già citato “Con le labbra cucite”, “Sonata rossa per Victor”, “L’angelo che punge”, “Con il vetro nelle mani”, “Fuoco amico”, “Acqua in fiamme”.
E poi verbi e sostantivi che tagliano, strappano, incidono; immagini che producono vera o simbolica cesura. Lacerare, scavare, tagliare, strappare, mordere, masticare, divorare:

Fiume oltrepassami lento, ma senza pietà aiutami a trafiggermi, a divorarmi con gusto un pezzetto alla volta.

Ferita, chiodo, bisturi, taglio, cicatrice, rossi organi:

Più in alto trovo la sabbia e l’allegra
fila delle orme degli uccelli: la scrittura
insonne, vibrante nel rosso delle rose
nelle vene che scoppiano sulla fronte
nei segni dell’abbandono, delle spine
e sotto i cavi ghiacci perché uso il male
come un piccone, un martello pneumatico
vado a fondo nella carne (la mia, la nostra)
porto via il fegato, i polmoni, il cuore

quello che resta degli occhi.

Così, pur con la bocca cucita (tale è il soffrire che non può essere detto), la scimmia millenaria di Jorge Eduardo Eielson – l’altro che è in noi e ha il coraggio di andare a fondo senza difese – guidata dallo scarno poetico affondare di Alessio Brandolini esplora, nel mirabile concentrato di versi e con il coraggioso azzardo della scrittura, tutto il dolore del mondo. Dall’atemporale defluire delle forze e dell’entusiasmo – Vive una volta sola il vento tropicale / frutta fresca e foglie avvinghiate al sole – all’insensata alienazione della nuova era mediatica, dai millenari laghi artici delle solitudini d’ogni tempo alla disumana condizione dei disperati e dei torturati degli inferni moderni.
A tinte forti, tra rosso e nero – altro colore / non-colore prevalente è infatti nel libro il nero delle muffe – senza sfumature e senza balsami, questo lavoro si fonda su un civile impegno, su un’impietosa analisi del vivere che sembrano molto lontani dalla precedente raccolta del poeta della terra. Eppure i primi segni di questa mappa del male, le prime orme di quello che Brandolini stesso, nei versi dedicati a Mary Barbara Tolusso definisce un “nuovo inatteso percorso”, sono ben rintracciabili in alcune polle sotterranee delle precedenti raccolte, così come non mancano in questa quegli elementi mutuati dalla naturalità degli alberi tanto congeniali al poeta:

Giorni d’attesa rintanato nel tronco
confuso alla corteccia che si stacca.
Ai rami senza foglie, né frutti
alla linfa che da tempo non scorre.

Ci sarà un colpo d’ascia
poi il rumore degli alberi abbattuti.

Non una cesura dunque, ma una svolta matura e consapevole che, a partire da un diverso approccio gnoseologico, innova arditamente discorso e forma. Se inconsapevole è il male, questo nuovo fare scrittura di Brandolini denota un’esperta e più che consapevole ricerca stilistica. Taglienti e nitidi i versi incidono quell’inconsapevole male nella nostra stessa carne, si agglomerano di tanto in tanto – questa l’innovazione formale più ardita e felice – in una pseudo prosa che, frantumando le regole, torna ad essere nuovo ed efficace esperimento poetico:

giuro che oggi la smetto di mentirmi addosso. ecco, vedi, mi spoglio e vado a letto prima del previsto e non mi alzerò al mattino per mischiare il mio canto a quello dei corvi o al nero cemento della periferia romana. prima o poi lo chiudo il quaderno. sì, quello che da solo scrive le storie e i versi sulla mia lingua. sbuccia la morbida carne del cuore. il male lacera le viscere e s’inventa frasi e parole alle quali poi, per decenni, si rimane aggrappati. inconsapevolmente ce ne andremo da noi stessi e dalle spaccature della notte non passerà più aria, né luce. ci mangerà il pane impigliato alle dita, ci berrà il silenzio nascosto negli occhi. ce ne staremo fuori dallo sguardo che sostiene la falsa armonia degli uomini-fratelli. per questo restiamo qui, e lenti camminiamo a piedi nudi sulla terra e parliamo come non abbiamo mai fatto, presto la smetteremo d’accarezzarci e sorridere all’erba di vetro che sfregia la pelle delle gambe e delle braccia.

L’urgenza
   d’azioni perfette
      lascia a lungo
         distanti, di stucco.
Talvolta per anni
   con il fiato sospeso
      o appeso alle pareti.

Stando da soli
   si può, immaginare
      di resistere, tenere duro
         d’essere molti, o in tanti.

C’è il povero
   e non lo vedi
      il santo
         e lo calpesti.

In pasti festosi
   la notte ingoia
      la luce degli astri
         maldestri, lagnosi.