Da Laura Ricci un canzoniere d’amore. Una recensione di Gabriella Musetti su Il Ponte Rosso

di Gabriella Musetti
in Il Ponte Rosso, n. 95, Trieste, agosto- settembre 2023

Perché fare un Canzoniere d’amore nel 2022, perché da una donna a diversi uomini («Dirò invece degli amori veri – pochi -»; «di storie vere e profonde»), perché raccontare solo «una scelta» di queste storie? Perché ripercorrere una tradizione letteraria illustre per lo più declinata al maschile (con alcune luminose “infrazioni” femminili, tra tutte: Gaspara Stampa oppure Elizabeth Barrett Browning – di cui Laura Ricci è stata traduttrice)?
Certamente il fatto non denota più uno “scandalo”, ma resta un sentiero poco battuto.
Sappiamo che la figura dell’altra è stata ricca fonte di poesia nei secoli, le virtù della donna amata hanno trasmesso canoni di bellezza e qualità leggiadre di superiorità morale impareggiabili, e perfino modelli idealizzati a cui tendere. Quasi un percorso di crescita personale misurato sui versi, un cammino di elevazione. La figura dell’altro in questo lavoro di Laura Ricci è sfaccettata, multiforme, non solo per il numero plurimo dei soggetti in questione, ma per le qualità che vengono messe in campo, per la rifrazione che questi soggetti – oggetto d’amore – versano sull’animo della poeta. Qui il percorso diventa una indagine profonda e allo stesso tempo scanzonata sulla propria personale attitudine alla relazione e un sentimento, una ricerca più volte denominata: folle.
È la follia una qualità intrinseca dell’amore? Anche. Ma qui la follia profonda risiede nel soggetto che muove la quête: il desiderio acuto e diffuso di un appagamento emozionale e sensuale, che viene accolto dalla poeta come spinta radicale del proprio essere al mondo. Accolto, non negato, non nascosto. È questa dimensione dell’essere umano, maschile, femminile, altro, a essere riconosciuto come radicale. E detto da una donna non resta senza conseguenze.

Il volume si presenta come una partitura musicale: Prologhetto numerato, Preludio, Intermezzo, Ripresa con coda, Rondò, ripetuti per tre volte, fino all’ultimo (quarto tempo), che si chiude, paradossalmente, con: Ouverture.
Parte con una scelta precisa di pronuncia: «Non dirò di…, non dirò di…», una selezione temporale e di argomenti: deduciamo che solo gli amori più pregnanti sono stati accolti nel Canzoniere, in numero di tre. Una scelta che è insieme frutto di rastremazione del giudizio e leggera come l’ironia soffusa che pervade tutto l’agile volumetto: guardarsi alle spalle e riflettere sulla propria vita amorosa è compito impegnativo e pur leggero, ora che il tempo è passato, quelle stagioni sono chiuse, e la vita va guardata nella realtà del presente, che pure apre (Ouverture finale), altre strade promettenti. Per quanto profondi e terribilmente persi, quegli amori non hanno lasciato in eredità una nostalgia opprimente che blocca o limita ogni speranza di azione e ricerca di felicità. Hanno lasciato, invece, un di più di umanità, una consapevolezza della precaria e mutevole condizione in cui noi esseri umani viviamo, una sorta di accettazione del nostro destino di esseri umani fragili e incompiuti. E tutto questo senza rancori, senza drammi postumi, senza le interferenze arroganti di un io che guarda solo a sé stesso e si pasce nella propria acuta disillusione.

Contraltare agli spasimi dell’io sono collocati i tre Rondò a specchio della realtà circostante: che cosa è accaduto nel mondo durante il tempo di quell’amore che tanta pena, dopo lo slancio e l’ebrezza iniziali, ha infine portato all’io? Ed ecco aprirsi le pagine dei quotidiani tormenti e tragedie che la realtà, sbucata fuori con virulenza dai giornali e dai diversi media, sbatte in faccia a tutti noi: disastri ambientali, terrorismo, morti, nazionalismi, profughi, neoliberismo sfrenato, fame, miseria, violenze, soprusi, guerre, altri morti, in una girandola inesauribile di orrori e prevaricazioni che segnano il mondo contemporaneo, di cui Laura Ricci, da giornalista, è una attenta osservatrice. Una realtà che squarcia ogni supposta idilliaca disposizione d’animo, fornita con l’asciuttezza scabra della cronaca giornalistica, con l’esattezza dura dei dati essenziali portati sulla pagina senza commento. Un punto di vista che destabilizza ogni argomento, del tutto inusuale in un Canzoniere d’amore. Curioso che siano occhi femminili a scriverne, contro ogni stereotipo.

La natura fa da cornice e guida alla narrazione delle vicende amorose nelle Ripresa con coda, è sfondo, paesaggio, individua il filo dinamico degli eventi, lo suggerisce: «Le piante ti rispondono sempre». Attraverso composizioni che si richiamano alla tradizione poetica italiana come il madrigale, la natura rigogliosa e succosa, colorata, metamorfica, gioca rimandando fragranze, suoni, bellezza, marcate attraverso allitterazioni, metafore, una tessitura musicale delicata, una campitura larga della vista che dalla memoria porta al presente: «Fu – questo intenso amore -// È – questo intenso amore/ campo rosso di fragole/ d’acre dolcezza profumato// È di limone fiore/ di frutto aspro allegro mi stordì/ d’aroma forte assaporato// Emana acre pari intenso odore/ l’aspro tuo intenso profumato/ amore». Un gioco di emersioni di immagini e nascondimenti ragguardevole, se ci aspettiamo una ninfa che sbuca dagli alberi. Le stagioni scandiscono i tempi e gli stati d’animo, la evoluzione stessa dei temi d’amore che ne seguono l’andamento: anticipazioni di luoghi d’ombra con la fine dell’estate, come presagi inquieti, o geli invernali che dilatano i silenzi e segnano la fine di una storia, «quasi un fallimento».

Il confronto ravvicinato tra ciò che di terribile accade nel mondo e le pene dell’amore che si evolve e finisce lasciando un senso di desolazione e solitudine non segna solo un “limite” alla soggettività individuale, una “relativizzazione” della percezione totalizzante della sofferenza d’amore ma indica anche, nelle strategie economiche e geopolitiche poste in evidenza, a specchio-contesto, una realtà contemporanea di separatezza sociale e neocolonialistica.
Il Preludio si apre su una similitudine rovesciata: «Morì – la gazza – prima/ dell’inverno…», «Ma viva io sono – viva/ e non muoio//…», a indicare il tono, tra l’ironico e il riflessivo, di tutta la composizione, riflessivo sulla storia privata, ma anche sui comportamenti umani, sulle tendenze sociali contemporanee, sulle relazioni tra i sessi. L’autrice si rivolge a un “tu” che è insieme interlocutore nascosto e parte di un dialogo interiore, a scandire da subito i diversi livelli di lettura del libro.

Due sembrano i punti focali del percorso di indagine: l’ambiente – natura e il tempo, la durata (potremmo dire) che sono le dimensioni proprie del dispiegamento delle diverse storie (passato), dimensioni che si rispecchiamo nella memoria posta nella doppia accezione di ricordo di un evento trascorso ed emozione presente («Dicono che anche la memoria/ sia un’emozione/ Se così è/ durerà mille anni la mia»), e anticipazioni (futuro). Proprio la dimensione molteplice, dei termini, dei significati, delle suggestioni, dei punti di osservazione, rende mobile e raffinata, con l’uso di molteplici metafore, l’osservazione degli episodi di vita vissuta, innescando un gioco di ossimori ed enjambement che si affacciano a esplorare il futuro: «Questa pioggia continua/ sottile mi gela questo ceppo/ che brucia più che fiamma/ ardente mi rammenta la cenere/ futura – il grigio mesto/ radunarsi di faville//», con rimandi evidenti alla tradizione, per giungere al mito («Enea da qualche parte»): gioco onirico dell’attesa, della quête, la ricerca che mette in moto l’azione. Nel gioco alterno dell’amore, del dare e dell’avere, resta sempre qualcosa di inesplorato.
E poi si rinnova l’avventura, la partenza: come un rinnovamento di vita che si apre al nuovo, al possibile. È la passione della pura vita che incalza, ricercata e perseguita come donna, non più lo “scandalo” della libertà femminile ormai indagato da molti studi femministi, ma la scelta consapevole di un percorso di autonomia da porre in atto. Nella riflessione che leggiamo l’inquietudine di una strada poco esplorata ancora permane, pur facendo proprio in modo personale quel carpe diem di oraziana memoria. C’è molto, in questi passaggi, della ricerca di una consapevolezza nuova, di contemporanea abitatrice del mondo con le proprie scelte di vita, la propria postura che ha una tradizione di libertà ormai conquistata da far valere, libera scelta, desiderio di conoscenza oltre i “limiti” imposti dal conformismo patriarcale al femminile.

L’Intermezzo si apre con una sorta di rammarico della memoria proprio sulla scelta della libertà voluta parimenti (per la donna e per l’uomo): «Ah se ti avessi chiesto – se ti avessi legato/ e invece ti ho lasciato libero ed è andata così/ tu ammogliato dalle tue parti e io qui/ divisi lontani con un amore interrotto/ e mai cessato – senza Firenze/ senza mare senza aver mai litigato». L’amore per la libertà è così grande che nessuno di questi amori può vivere in condizioni costrittive: il pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere si stempera nell’accaduto, la forza chiara dei sentimenti non può essere limitata neppure per benefici futuri.

Una osservazione a parte merita la riflessione sulla “forza” femminile, la capacità di sottrarsi, anche per merito del femminismo, alla disgregazione, all’annientamento della coscienza nella disperazione, quella «forza tenace» capace di resistere a lutti, perdite, incertezze, nel desiderio di inseguire il senso (della vita): «Intollerabile dieci anni fa/ ora atroce soltanto». Un nuovo passo, una nuova misura: «Composta osservo quasi fosse/ faccenda non mia/ d’altri». Questa scelta che pone radici nella ricerca di una dimensione soggettiva e femminile di salvezza, segna una separazione netta dalla immagine tradizionale della donna incapace di avere una specifica consistenza e autonomia  senza l’appoggio solidale dell’uomo. «Adesso so che devo/ sola rinascere – difendermi// Non sarà facile uccidermi// È di noi donne la remota/ dura ostinata arte/ di non soccombere».

L’Ouverture chiude questo lavoro con uno spostamento imprevedibile. Terminata la stagione degli innamoramenti brucianti, dopo l’ultima sofferta esperienza che tanta afflizione ha indotto – stagione peraltro mai negata – lo sguardo si apre a nuove riflessioni d’amore, una sorta di ripensamento sulle condizioni dell’amore stesso, sulla sua pervasività e tenacia storica. «Per secoli credettero le donne/
che fosse – l’uomo – loro Signore/ nulla  – la vita – senza il suo amore// Poi compresero – il settimo giorno – che/ dell’Universo era – l’uomo – solo/ una piccola parte non il tutto// E le forme d’Amore mille e mille». In questa dimensione di rinnovata esplorazione, una vera Genesi, l’autrice allarga la misura del sentire abbracciando spazi e profondità altre, dando voce e ascolto a suggestioni liminari e presenti nella umana capacità di essere al mondo, interrogando sé stessa, la propria soggettività e storia, ma anche la partitura temporale e spaziale della vita umana in quanto vita. E qui Trieste diventa protagonista, a confermare il legame dell’autrice con la città amata: «E se fosse Trieste la quindicesima/ Stazione – grani senza più numero/ di un Rosario infinito – da correre/ privo di conto tra le dita – e se fosse/ Trieste un nuovo porto di Saudade/ non un attracco di concluse rive/ ma di promesse un molo coraggioso//…».
La pacatezza, nel finale rapporto con il termine della vita per ogni essere umano, rivela una acquisizione di consapevolezza e accettazione delle molteplici possibilità che sono date ai viventi, donne e uomini, vissute singolarmente come “caso”, “destino”, “volontà”, “fortuna”, “dono”, a seconda delle diverse posizioni individuali. Una lezione di acume e sobrietà: «…Partiremo da qui da questo molo/ fino al delta che mare e fiume confonde/ dove chi amammo sotto mentite spoglie/ aspetta – tamerice giunco farfalla/ Noi – ormai sostanza non più umana -/ libellula gerrìde moscerino – lievi/ saremo agili al cammino».

Laura Ricci
D’amore e d’altre minuzie
Robin edizioni, Torino, 2022
pp. 125, euro 14,00