“Guarire mondi in crisi”. Una recensione di Laura Ricci sul volume postumo di saggi di Melita Richter

Un volume postumo di Melita Richter raccoglie i suoi attualissimi saggi su guerra, pace, migrazione e scrittura migrante. Femminismo e interculturalità sono stati due approcci inscindibili del credo esistenziale e del lavoro di Melita Richter.

di Laura Ricci sul N. 96 Ottobre 2023 della rivista Il Ponterosso

Guarire mondi in crisi è una recente raccolta di saggi di Melita Richter Malabotta pubblicata da Vita Activa Nuova. Tra i meriti del libro, quello strutturale è la ricucitura di contributi di stampo politico, sociologico o letterario scritti per varie riviste tra il 1995 e il 2019, presentando in un corpus organico il multiforme pensiero della studiosa, che alla teoria ha coniugato l’azione socio-politica ispirata da pacifismo, femminismo, multiculturalità, migrazione-accoglienza, e una pratica instancabile di ampie e variegate relazioni umane.

Nata nel 1947 a Zagabria nell’allora Jugoslavia, in una famiglia cosmopolita di intellettuali, oltre al serbo-croato in casa praticava correntemente tedesco e ungherese, a cui si aggiunsero, per gli studi, lo sloveno, l’italiano, il francese e l’inglese. Laureatasi in sociologia e in lingua e letteratura italiana all’Università di Zagabria, aveva approfondito le conoscenze in sociologia urbana, ecologia, studi sulla pace in patria e all’estero, conseguendo la specializzazione in sociologia urbana e iniziando a lavorare nell’Ufficio urbanistico della sua città. Nel 1980 la decisione di lasciare il suo paese e stabilirsi a Trieste, dove fondò la sua famiglia con il compagno di vita Gianni Malabotta: città che, sottolineano le curatrici, non era all’epoca il luogo aperto e multiculturale che conosciamo oggi e che Melita Richter ha contribuito a far diventare tale con la sua attività di sociologa, docente, mediatrice culturale, e con un instancabile impegno di ricerca e di scrittura fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2019.

Il libro si snoda intorno ad alcuni nuclei fondamentali del pensiero di Richter che affronta ed elabora temi tuttora molto attuali: le guerre provocate dai nazionalismi e gli spaventosi guasti che determinano; la migrazione e l’esperienza dell’esilio, le disuguaglianze sociali e di genere; e, in un’ottica di cura e di guarigione – da qui la pregnanza del titolo – la necessità di reti internazionali pacifiste e femministe, di nuove convivenze e di nuove identità fluide in ciò che definisce “il Terzo Spazio”, ove si iscrive anche la scrittura migrante come rielaborazione del distacco e come esperienza fondante di un nuovo soggetto creativo.

Melita si era formata, come scrive nella prima sezione del volume dedicata ai ricordi, amando la patria piccola, Zagabria, e la patria grande, la Jugoslavia. È orgogliosa, come molti altri giovani balcanici, della multiculturalità del suo paese e dello strappo politico che lì si era prodotto dal controllo sovietico e dai due blocchi politico-militari della guerra fredda; è fiera di conoscere sia le culture e le lingue della Jugoslavia, sia quelle dell’Europa occidentale la quale, per lo più, ignora invece quelle dei Balcani. Si trova a Parigi, durante un viaggio per universitari, il primo maggio del 1968 e resta profondamente segnata dall’esperienza sessantottina di libertà e di rielaborazione culturale a cui continuerà a partecipare direttamente, anche negli anni successivi, aderendo al gruppo Praxis, formato da filosofi e sociologi delle nazionalità jugoslave (in primis Predrag Matvejević) che, in contatto con molti colleghi europei, contrapponevano alla vulgata marxista un nuovo “socialismo dal volto umano” in un contesto, unico in Europa, di liberismo intellettuale della sinistra in un paese a regime socialista.

L’evento, per lei dolorosissimo, che segna profondamente il suo pensiero orientandolo verso ulteriori ambiti è l’esplodere, nel 1991, dei feroci conflitti etnici che portarono alla dissoluzione della Jugoslavia e alla formazione dei nuovi stati nazionali. Il prezzo di ciò, come Richter argomenta in numerosi scritti del libro, fu altissimo. Alimentate dagli odi etnici e religiosi di arretrato stampo rurale, abilmente manipolati dai potenti di turno e dalle propagande nazionaliste, popolazioni che fino ad allora avevano convissuto in pace nelle loro differenze, entrano in sanguinosi conflitti non solo di eserciti, ma addirittura di clan rivali, in cui non vengono più riconosciuti neanche amici e parenti, e in cui si affermano e prevalgono l’assassinio singolo o di massa, la distruzione di villaggi e città, la tortura e lo stupro. Da sociologa urbana qual è, individua nell’urbicidio il crimine che, oltre a distruggere le città, stravolge e fiacca gli spiriti delle persone, affinché si rinchiudano come topi nelle loro enclave etniche. «L’obiettivo dei nuovi barbari – scrive – era uccidere la città nella sua essenza, annientare lo spirito cosmopolita che la distingueva, la sua tolleranza, il métissage, la dolce mescolanza di lingue e la differenza di fedi». L’accanimento senza alcuna logica militare non contro i punti nevralgici dello Stato, ma contro gli edifici e la popolazione civile, è «una guerra contro gli abitanti delle città e contro quella cultura sublime che è il saper vivere insieme», indurli «agli schieramenti semplici, primari, tribali, al riparo della propria appartenenza».

Parole tremendamente attuali, pensando alle guerre russo-ucraina e israelo-palestinese in corso, ma anche a guerre precedenti: basti citare, simili per ragioni e dinamiche, la distruzione di città di fiorente meticciato e convivenza come Mogadiscio, Palmira o Aleppo.

Riflettendo sui mutamenti avvenuti a vent’anni dagli accordi di Dayton, che nel 1995 sancirono la fine del conflitto in Bosnia ed Erzegovina, Richter evidenzia come sia stato soprattutto questo territorio a pagare il prezzo di una transizione non riuscita, che non ripaga né economicamente, né umanamente e intellettualmente della perdita di una fertile complessità multiculturale, e il lungo assedio e la distruzione di Sarajevo, come anche quella del Ponte Vecchio di Mostar, diventano il simbolo di questo e degli altri insensati conflitti che hanno scosso la sua “patria grande”. Quanto al Danubio, che Richter naviga con prudenza e religioso timore, quasi fluisce – in un suggestivo scritto del 2003 finora inedito, incluso in questa raccolta – come l’anti-Danubio magrisiano, il suo controcanto. Se per Magris, che pubblicò il suo libro prima delle guerre balcaniche, il fiume è snodo e ricucitura feconda di popoli, civiltà e culture, per Richter, che scrive dopo quelle guerre, si configura come maestoso letto senza fragranza, capace «di inghiottire le sorti e i corpi di uomini e di popoli, di carri, di cavalli, di cannoni, di ponti, […] per la sua abilità di lavare le menzogne e proporsi docile e muto come una sfinge». Nel suo viaggio il fiume la accoglie con l’allucinante desolazione di Vukovar, un tempo fiorente, ora con gli edifici crivellati da proiettili e granate. Salvo il divenire più amico nel corso della navigazione, via via che evidenzia, nelle diverse realtà che tocca, un desiderio ramificato di Europa-casa comune, e la presenza di un’attiva, speranzosa e civile Europa dal basso che Richter, europeista convinta, affianca all’Europa formale «grande promessa non mantenuta, una trappola, un circolo vizioso».

Melita – che ho avuto la fortuna di conoscere, praticare e apprezzare personalmente – croata dell’amata Zagabria, triestina di elezione, ha continuato a sentirsi jugoslava, a sentirsi a casa nell’ex capitale Belgrado; e anche in questo libro risuonano, con lucida ostinazione, le parole della scrittrice croata Dubravka Ugrešić che sempre ha sentito profondamente sue: «Di dove sei? / Della Jugoslavia. / È un paese che esiste? / No, ma io vengo da lì».

Dalla tragedia che la scosse a livello personale e culturale, escono ulteriormente fortificati quelli che, nella postfazione, Biljana Kašić definisce i due approcci inscindibili del suo credo esistenziale e del suo lavoro: il femminismo e l’interculturalità. Analizzando dinamiche e conseguenze delle guerre nei Balcani (come pure di ogni guerra), mettendosi in rete e mantenendo contatti culturali e politici con quei territori, Richter si rende conto che sono soprattutto le reti di donne a opporsi alla demonizzazione dell’altro e alla divisione etnico-religiosa, le donne a soffrire e a pagare più di altri le atrocità e le conseguenze della guerra, e ancora loro a chiedere giustizia per i crimini di guerra che le nuove repubbliche tendono a edulcorare. Non si tratta solo degli stupri etnici tristemente noti, ma di violenze anche domestiche che, nel crescente furore, gli uomini guerrieri riservano persino alle loro donne; e della pericolosa e pesante “domesticazione femminile” a cui i nuovi stati nazionalisti riportano le donne. «Il connubio patriarcato-nazionalismo – scrive Richter – ha riportato le donne alla vecchia/nuova domesticazione dove i principali valori sono diventati la casa, la famiglia, la patria, la nazione e la religione». Traducendo in pratica politica la sua ricerca teorica, a partire dai primi anni Novanta Melita collabora con i gruppi pacifisti dell’area ex-jugoslava, tra cui le “Donne in nero” di Belgrado, il “Centro di cultura serba Danilo Kiš” di Lubiana, il “Forum Tomizza”, organizza incontri pacifisti, traduce e diffonde testi provenienti dall’ ex-Jugoslavia, crea ponti di collegamento tra culture diverse in un’infaticabile attività di mediazione culturale, docenza, scrittura critica e non da ultimo poetica, con l’adesione al gruppo internazionale della “Compagnia delle poete”.

La guerra causa la migrazione e l’esilio, su cui Richter riflette nell’ultima parte del libro, coniugandoli all’esperienza della scrittura. Sebbene esista una differenza non da poco tra chi, come lei, ha scelto liberamente di lasciare il proprio Paese e chi vi è stato invece costretto da ragioni politiche o economiche, ogni migrazione produce un esilio e deve fare i conti con il formarsi di una nuova identità plurima, in cui si verificano sicuramente perdite, ma possono schiudersi anche insperate opportunità. Vale per ogni tipo di migrante, che se si pone o viene posto in un enclave in cui si perpetuano solo i contatti con persone della cultura di appartenenza, non potrà che restare in una condizione di confinamento; vale per gli/le intellettuali e per le scrittrici e gli scrittori. La scommessa, suggerisce Richter seguendo le elaborazioni teoriche di Ian Chambers, è quella di porsi in un particolare spazio dello spaesamento, un “Terzo Spazio” nel quale le radici, nel senso di gabbia identitaria predestinata, sono messe in discussione e la capacità di compiere attraversamenti rende l’io fluttuante, capace di confrontarsi con l’altro e con l’altrove e, nutrendosi dell’esperienza reale, di addentrarsi in un processo aperto di trasformazione del sé.

Nel luogo della scrittura migrante, per dirla con Milan Kundera e con Vera Linhartova, che Melita cita, si tratta di abbandonare «il moralismo lacrimevole che ha occultato la vita dell’esiliato», che spesso ha invece saputo trasformare «la sua messa al bando in un impulso liberatore verso un altrove, sconosciuto per definizione, aperto a tutte le possibilità». Tappa significativa, negli scrittori e nelle scrittrici che si sono posti in tale dimensione, è il passaggio dalla scrittura in lingua madre a quella nella lingua acquisita: oltre a citare Kundera, Linhartova, Tabucchi, Richter riporta le esperienze di scrittura italofona di Tzvetan Todorov e Barbara Sedarkowski e, come scrittrice di seconda generazione, di Igiaba Scego. Il rovesciamento del senso di perdita iniziale in creatività fa sì che la memoria non sia più in cerca della patria perduta, ma divenga «una memoria meticcia, arricchita dalla relazione, dallo scambio, dalla nuova mappatura mentale».

L’appropriazione, nella nuova lingua, della parola scritta o pronunciata in pubblico arricchisce inoltre la voce migrante dello spessore della responsabilità, rendendo esplicita la partecipazione alle questioni di cittadinanza attiva e di denuncia sociale e politica.

In questi tempi di vaste e dolorose migrazioni, e di guerre dalle radici di intolleranza religiosa, nazionalismo, totalitarismo, razzismo fino all’estrema soglia del genocidio più o meno conclamato, ciò che di lucido e profondo questa raccolta di saggi ripropone del pensiero di Melita Richter acutizza la sua mancanza – molto ancora avrebbe potuto dire e fare – ma rivela quanto il suo insegnamento sia prezioso per concorrere alla comprensione, e ancora di più a quello che potrebbe essere un approccio di guarigione – se mai possibile – delle nostre società contemporanee, sempre più gravemente malate e in pressoché inarrestabile crisi.

 

 

Melita Richter Malabotta
Guarire mondi in crisi
A cura di Marija Mitrović e Sanja Roić
Introduzione: Marija Mitrović e Sanja Roić
Postfazione: Biljana Kašic
Vita Activa Nuova, Trieste 2023
pp. 304, euro 20,00