L’opposta riva nella poesia dell’esperienza di Fabiano Alborghetti

Laura Ricci, dalla rivista “Fabruaria”, 31 agosto 2008

L’opposta riva è quella reale del desiderio forzato o cauto, quella coltivata nell’odio-amore per le proprie radici, – la nostra – quella che migliaia e migliaia di immigrati hanno guadagnato, traversando avventurosamente il Mediterraneo verso le sponde dell’Italia, negli ultimi decenni; ma è anche e ancora di più quella simbolica che, strappati al luogo, alla nascita, alla lingua, senza più un luogo preciso cui appartenere, sbarca sui lidi di una cultura diversa, la nostra. L’altra cultura è la questione, spaventa e ingrossa la disparità vede bene, indica a piene dita l’angolo concesso in cui resisto: a ospite negletto mi disegna a residente o assassino…

La densa raccolta di Fabiano Alborghetti, pubblicata a fine maggio 2008 nella collana Aretusa della edizioni poetiche LietoColle di Michelangelo Camelliti, presenta, tra tanti stimoli e meriti, anche quello grandissimo di porre noi, – la cultura ospite, i predominanti, i legislatori, i giudici – in posizione di inattesa alterità, di imprevisto ascolto. L’orecchio del poeta, che riferisce continuamente incalzato dal costante diceva del migrante di turno, si fa diapason degli esclusi, degli emarginati, dei regolari o dei clandestini che, in modo mai indolore, hanno traversato via terra o via mare i nostri confini. Riporta il discorso dell’altro/altra, fa piazza pulita del nostro ordinario sparlare, spiazza. Ma adesso chi ci ascolta domandava… Ho imparato la tua lingua e comporto come devo. Mi rivesto travestendo ma non serve mi ripete, troppo fermo il tuo rifiuto L’altra cultura è la questione, la loro, la nostra.

Definito dal poeta “una raccolta composta come una Spoon River dei vivi”, L’ opposta riva mette in scena le voci dei clandestini di stanza in Italia con cui Alborghetti ha voluto vivere tra il 2001 e il 2004, per raccogliere dal vivo le mappe del loro strappo e della loro esistenza quotidiana nel nostro Paese, disegnata attraverso una ricca e pregnante casistica. La necessità del viaggio verso l’Italia, dovuta alla guerra e alla fame, come è il caso di alcuni paesi africani, ma anche più semplicemente alla povertà e al bisogno di mantenere le famiglie, come è più tipico dell’area albanese e balcanica. La dura vita nel nostro Paese, nei ghetti etnici o nella solitudine, comunque relegati nel silenzio e nella nostalgia. Le difficoltà della lingua e delle relazioni – tra noi e loro, tra loro e i loro cari lontani – la mancanza d’amore, l’ossessione delle pratiche burocratiche. E la volontà di resistere, di integrare il proprio vivere nell’opposta riva, ma senza dimenticare la propria.

La fatica della lingua, dicevamo, l’orgoglio del voler fare da sé, la consapevolezza dei diritti: Nessun aiuto ho giurato dover chiedere ancora dopo il primo documento allo sportello: già la vergogna basta dell’assistere come un mendicante e dipendere dall’altrui comprensione… Così alla scuola di italiano per mesi nel dopolavoro, allenando gli occhi a cercare come chiedere suono dopo suono il vitale. Nella rincorsa mi dicevo: non più di frodo la lingua definitiva per come parlo chiaro e tutt’altro equilibrio va formando ora. Reclamare il diritto con la voce ho imparato sfinisce eguale ma con meno impotenza…

L’umiliazione che umilia chi umilia: Come all’officina del materassaio, la posizione bassa era offerta una poca paga tra il baratto del nome e il dovere restare. Prendere o lasciare mi dicevano: a lungo andare il documento arriva. Così restavo metà invisibile e più spazio che persona. Sbagliavano il mio nome nel chiamare ma nessuno curava costando poco chi o cosa mastica lavoro… La resistenza, più e più volte espressa dal reiterato serpeggiare dell’avverbio della volontà del reagire e del vivere, nonostante… Nessuno debole o travolto a questa latitudine nessuno prostra e rimane basso: come alza il capo ecco l’uomo ritornare, lo zelo dei flageli nonostante…
E’ già ieri ma rimane il dolo tra le mani come al volto poste, senza niente da riempire: disdire il precedente non puoi mi dice e certa storia rimane nonostante…
Di nessuno la destinazione certa solo di alcuni accanto a morire di fame insieme: e nonostante, del giardino parlava del pane fatto la sera…

Trovarsi sull’opposta riva, dunque, andare e restare nonostante. Da una riva all’altra separa solo la paura dell’inizio una mancanza di traccia: cosa lascio indietro se vado diceva che memoria trovo? Andare, ricominciare, non viaggiatori ma migranti, con un ritorno sperato o negato. Frazionati, scissi, in cerca di consistenza e visibilità: Se frazioni e dividi per due mi trovi diceva e non sapeva contare: metà vive riposto oltremare metà viene lasciato a se stesso nel tuo mondo. Per resistere entro ed esco vado e torno diceva ma è difficile avere una consistenza che superi l’invisibile Diversi da quel che si era, con le mani ormai piagate – Somiglio ancora chiedeva o cosa sono? – ma attaccati, nonostante, al filo pietoso della memoria: Quel poco che resta va difeso diceva, così rimane qualcosa di sicuro: finalmente non separa se trattieni. Trattieni bene a piene mani. Non lasciare andare come abbiamo già fatto…

L’altra cultura è la questione… Unico punto di contatto, tra la distanza delle rive, l’attimo breve della vita, l’intermittenza, la comune vanitas: Lo sbalzo sopra le teste l’intermittenza di luce interessa per la frazione minima per la mancanza improvvisa. Sovrappone alla continuità ma è solo temporale rassicuro. Il fare immutato prosegue allora nella pausa di corrente tra l’erogare e le impronte sulle cose. Noi viviamo uguale dico: così alternati tra costanza e sottrazione…

Con rigore icastico, senza sbavature, fuori da ogni pietismo e da ogni retorica, Fabiano Alborghetti traccia un quadro quanto mai esaustivo e incisivo della realtà umana e sociale dell’immigrazione. Con un mezzo, quello del discorso in versi, che ce ne consegna con inconsueta forza tutta la drammaticità: neanche cento pagine piuttosto che un trattato, neanche una parola oziosa o inutile, tutte dritte e mirate al denso connotato politico che può assumere la poesia. Lo stile, limpido e preciso, richiede l’attenzione costante del lettore per l’uso singolare della punteggiatura, o meglio per la “non interpunzione”. Volutamente ambiguo costringe il lettore a fermarsi, a tornare sui suoi passi, a compiere più di una rilettura. Non so se era nell’intenzione di Fabiano, ma mi piace pensare che questa attenzione continua alla lingua, questo lavoro di ricostruzione, voglia in qualche modo riprodurre il primo dépaysement di ogni immigrato di fronte a una lingua altra, farci toccare dal vivo lo sforzo linguistico della comprensione.

Con questo libro Fabiano Alborghetti, che è milanese ma vive attualmente a Lugano, ha ricevuto dall’ente svizzero per le arti, la Pro Helvetia, una borsa letteraria per l’anno 2008. Su invito del Consolato generale di Svizzera, il libro sarà inoltre portato al Festival di San Francisco Other Words con una serie di conferenze tra il 7 e il 13 ottobre.